Salvatore Ferragamo e la mixology
Salvatore Ferragamo non era soltanto un genio, maestro indiscusso dell’artigianalità e simbolo di stile intramontabile; la sua versatilità si estendeva anche alla sfera sociale, dove brillava per il suo innato talento nel creare momenti indimenticabili. Nella sua biografia, ci regala un vivido scorcio della sua vita mondana, ricordando come, durante le feste, affascinasse ed intrattenesse gli ospiti con la sua arte durante i party sfavillanti della Hollywood anni ‘20 cui prendeva parte.
Le sue parole ci immergono in un’atmosfera di sofisticata convivialità:
«Partecipavo anche a molti party, occasioni che amavo e odiavo allo stesso tempo. Mi piaceva stare in buona compagnia e divertirmi, e anche gli affari ne traevano beneficio. Coloro che portavano le mie scarpe le elogiavano e le sfoggiavano con orgoglio, mentre chi non le aveva nascondeva i piedi sotto il tavolo, non senza un certo imbarazzo, e il giorno seguente veniva nel mio salone per farsene fare un paio. D’altro canto, detestavo bere e non mi piaceva fare tardi: avevo sempre del lavoro da fare il mattino seguente. Imparai la lezione alcuni mesi dopo il mio arrivo a Hollywood: era la mia prima festa, organizzata da Barbara La Marr un sabato sera. Ricordo che c’erano praticamente tutti i divi (per lo meno tutti quelli che si sopportavano fra loro), da Mary Pickford e Douglas Fairbanks in giù. Una serata tremendamente eccitante. Tutti erano allegri e gentili, splendidi e affascinanti, e tutti mi davano da bere in continuazione. Mi sembrava scortese rifiutare, così, anche se non sono mai stato un forte bevitore, accettavo tutto quello che mi veniva offerto. Dopo il quarto bicchiere – almeno credo fosse il quarto, non tenevo il conto preciso – andò a finire che persi i sensi. Mi svegliai il mattino dopo alle dieci, ancora in casa La Marr. Mi alzai in fretta con i postumi della sbornia e mi feci strada in mezzo agli altri invitati accasciati sulle poltrone o stesi sul pavimento. Alcuni dormivano il sonno del dopo-sbornia, altri erano completamente ubriachi e incoscienti. Andai a casa e mi feci un bagno, ma dovetti tornare a dormire. Mi svegliai il lunedì mattina. Da allora fui molto più cauto con i party, finché una sera per caso Monty Banks mi aiutò a scoprire il modo di rimanere sobrio. Durante un ricevimento si parlava di liquori italiani e lui menzionò la grappa. La conoscevo solo di nome: avevo lasciato il mio paese da piccolo e la grappa era una delle molte cose italiane di cui non sapevo nulla. Monty mi chiese se fossi capace di “prepararne” una. “Sì, naturalmente”, dissi con fare sicuro, “è molto semplice”. “E allora preparala”, replicò. Andai dietro al bar improvvisato e feci un po’ di scena con alcune bottiglie. Monty assaggiò il drink e lo trovò buono; lo offrì anche agli altri e così, quando fu finito, dovetti rifarlo. Sfortunatamente avevo dimenticato le dosi, ma mi feci coraggio e tentai. Nessuno trovò che il gusto era differente, ammesso che lo fosse davvero. Questo episodio mi suggerì che in futuro il mio ruolo ai party sarebbe stato quello del barman. Diventai noto come specialista di deliziosi cocktail e, alla fine, venivo invitato alle feste quasi solo per questo. La cosa non mi disturbava e facevo del mio meglio con i pochi ingredienti a disposizione. Oltre ad essere piuttosto costosi, gli alcolici si trovavano con difficoltà e di solito erano di qualità pessima. Ero costretto a improvvisare. Ricordo di avere inventato due cocktail: il “Roscata” e il “Green”, un miscuglio verde che divenne di gran moda. Il “Roscata” era un’orribile mistura: gin (più che gin era alcool puro), angostura, un goccio di brandy e molto ghiaccio. Il “Green” invece era solo menta e rum. Il primo piaceva perché lasciava in bocca un buon sapore e il secondo perché era fresco. Mentre gli ospiti bevevano i miei cocktail, io me ne stavo dietro il banco a sorseggiare con disinvoltura un bicchiere di Ginger Ale, facendo finta che fosse whisky. Ricordo che una volta Barbara La Marr venne a chiedermi un drink e, impaziente mentre glielo preparavo, bevve un sorso del mio Ginger Ale. Quel sapore inatteso la sorprese a tal punto che sputò tutto, chiedendomi perché mai stessi bevendo una schifezza così. A quanto pare le abitudini delle dive del cinema esercitano un fascino inesauribile su moltissime persone. Mi hanno chiesto un milione di volte come facessi ad andare d’accordo con loro, sottintendendo che tutte le attrici sono creature capricciose, volubili, difficili e molto spesso insopportabili. Io non le trovavo tali a meno che non ci fosse un motivo valido, qualcosa che avrebbe fatto uscire dai gangheri anche la persona più equilibrata. Sono rimasto invece stupefatto e inorridito dal trattamento che alcune star ricevevano da chi si occupava di loro. Ho visto sarte e parrucchieri insultarle perché chiedevano una cosa mentre loro ne volevano fare un’altra, di solito per ragioni commerciali: difatti, mostrare una nuova acconciatura o un nuovo modello su una star di Hollywood rappresentava un eccellente veicolo pubblicitario. Accadeva così che le dive più ingenue o non abbastanza informate in termini di moda si lasciassero convincere a fare cose che non volevano e finivano per essere umiliate sul set dal regista, che sbraitava: “Dove hai preso quel vestito? Che accidenti hai fatto ai capelli? Fuori di qui, sparisci!” Mi è sempre sembrato molto ingiusto che chi ha il compito di servire la gente debba imporre le proprie idee solo per costruirsi una reputazione. Le dive di tutto il mondo non vengono nel mio salone per comprare la mia reputazione ma per acquistare delle scarpe che siano comode e belle. Ho sempre cercato di dar loro ciò che volevano e, quando ritenevo che sbagliassero, ho provato in tutti i modi a consigliarle per il meglio».
Tratto da: Salvatore Ferragamo. Il calzolaio dei sogni, autobiografia, Electa, 2020, pp. 97-99